Il Memoriale ha licenziato il 60% dello staff (causa pandemia) e cancellato i progetti speciali per il 2021. Ma è la sua «filosofia» a finire sotto accusa. Elizabeth Miller: «I video che in 5 minuti spiegano l’Islam radicale sono nocivi»
Elizabeth Miller aveva sei anni quando suo padre Douglas, un vigile del fuoco trentaquattrenne, morì nel crollo delle Torri Gemelle. Sin da piccola, ha sempre sentito il bisogno di una memoria più ampia degli eventi legati a quella perdita. A 11 anni scrisse una lettera al presidente George W. Bush, firmata da tutti i suoi compagni di classe, in cui gli chiedeva di ritirare le truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq. «Mi faceva rabbia il pensiero che altri bambini stessero perdendo i loro papà». In quella lettera citava una popolare canzone delle Dixie Chicks, «Not Ready to Make Nice»:
Forgive, sounds good / Perdona, suona bene.
Forget, I’m not sure I could / Dimentica, non credo di poterlo fare.
They say time heals everything / Dicono che il tempo curi ogni cosa.
But I’m still waiting / Ma sto ancora aspettando.
Bush non le rispose.
«Allora scrissi una seconda lettera», racconta. Ma anche allora il presidente non si fece vivo.
Elizabeth ha cercato le risposte altrove. All’università ha studiato lingua araba e terrorismo, ha vissuto per un mese in Marocco. «Sono cresciuta in una famiglia cattolica di origini italiane a Port Jervis, un paesino a un’ora e mezzo da New York. E’ un posto piccolo, la gente è semplice… i nostri vicini sono stati accanto a mia madre, a me e alle mie sorelle dopo l’11 settembre. New York era un luogo teso e polarizzato, c’era molta islamofobia: per una bambina di sei anni era troppo. Sono felice di essere cresciuta qui, lontano dalla città. Ho potuto trarre conclusioni mie su ciò che è successo».
«Never forget», mai dimenticare, è uno slogan potente, che da tempo accompagna l’11 settembre, fino alla creazione, quest’anno, di un Never Forget Fund, che mira a raccontare ciò che è successo alle generazioni che quel giorno non erano ancora nate. Ma su cosa ricordare e su come farlo non c’è mai stato un vero accordo e, vent’anni dopo, le crepe stanno emergendo proprio intorno al luogo creato per tener vivo per sempre il ricordo: il Museo e Memoriale dell’11 settembre. Succede in un momento di crisi legata alla pandemia, che ha portato al licenziamento del 60% dello staff del Museo e alla cancellazione dei progetti per una commemorazione speciale per il 2021. Ma le divergenze c’erano sin dall’inizio. Da subito c’era chi avrebbe voluto dedicare una sezione all’impatto dell’11 settembre sulla società americana: la crescita del nazionalismo, le bugie sulle armi di distruzione di massa in Iraq, le motivazioni dietro la «guerra al terrore». Ma alla fine prevalse la scelta di usare reperti, registrazioni e immagini per documentare gli attacchi e il loro impatto più immediato.
Ora, in occasione dell’anniversario ventennale, una delle idee per la commemorazione speciale consisteva nel mettere in luce il contributo della musica nell’unire i sopravvissuti al terrorismo, con pezzi tratti da una performance di Ariana Grande dopo l’attentato a Manchester nel 2017 e da un concerto di Lorde dopo le sparatorie del 2019 nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. Alla fine, in assenza di fondi, si è optato per una cerimonia semplice, con i nomi delle 2.977 vittime letti a voce alta come sempre. E secondo Anthoula Katsimatides, che nell’attacco ha perso suo fratello John e che fa parte del consiglio di amministrazione del museo, è meglio così. «Avere una cantante famosa non cambia niente. Riunirsi insieme e recitare i nomi dei nostri cari è la cosa più importante». Anche Elizabeth Miller ha lavorato per il museo per un anno, prima di essere licenziata nel giugno 2020 a causa della pandemia. Al posto di Ariana Grande e Lorde, lei avrebbe voluto dare spazio alle storie dei figli dell’11 settembre: «Molti hanno seguito le orme dei genitori, diventando pompieri o trader. Avremmo potuto sviluppare un racconto online. Sarebbe stato bello non solo parlare di eroismo e di perdita, ma anche di come noi figli siamo cresciuti, di come l’America è cresciuta. Ma spesso le decisioni al museo sono state prese dall’alto».
Miller non è l’unica voce critica. Mentre la «mission» del museo è di «esplorare l’11 settembre, documentandone l’impatto ed esaminando il suo significato nel tempo», diversi ex dipendenti tra cui alcuni «fondatori» lamentano che non sia riuscito ad evolversi e a crescere nel tempo. Michael Shulan, l’ex direttore creativo, ha detto al New York Times che c’è sempre stata una certa paura di riesaminare il modo in cui sono narrati gli eventi: «Vent’anni dopo deve esserci una svolta nella prospettiva. Se non ti poni le domande, apri soltanto nuove crisi». L’amministrazione è stata anche accusata di controllare in maniera troppo rigida i ricercatori e di limitare la libertà di espressione («Non si può cantare. In un posto che celebra la libertà, le manifestazioni sono proibite», scriveva il giornalista Michael Kimmelman sul Times nel 2014). L’istituzione ha contestato con i suoi avvocati alcune scene di un nuovo documentario, «The Outsider» di Pamela Yoder e Steven Rosenblaum, che mostra gli scontri interni tra i dirigenti su come «codificare» la storia del 9/11.
Quella storia Elizabeth Miller l’ha studiata per tutta la vita. «Una delle prime cose che ho letto è stato Le altissime torri di Lawrence Wright e mi ha spinto a cercare di capire l’attrattiva dell’ideologia del padre fondatore del jihad moderno, Sayyid Qutb, e di Osama bin Laden. È facile dire “odiano il nostro stile di vita”, è molto più difficile cercare di analizzare la politica estera». Il diario di Mohammadou Ould Slahi, torturato a Guantanamo e poi liberato senza accuse, l’ha turbata al punto da contattarlo per chiedergli scusa. «Dopo l’11 settembre il governo statunitense e i suoi alleati hanno agito nel nome delle vittime, ma senza la nostra approvazione. Hanno preso decisioni frettolose, che dalla violenza hanno generato altra violenza». Parte del problema del Memoriale e del Museo è forse proprio la sua doppia natura. «I video che cercano di spiegare in cinque minuti l’Islam radicale sono semplicistici e, in fin dei conti, nocivi per chi non ne sa niente — sostiene Miller —. Un museo è un’istituzione che ha il dovere di raccontare ogni parte della Storia. Ma è difficile, perché vuoi anche un luogo dove le famiglie si trovino a proprio agio e la memoria dei loro cari non venga oscurata. Ci sono senz’altro famiglie a cui sta bene così, ma anche altre che non lo visitano mai. Mia sorella non c’è mai stata. Non è un buon posto per chi ha vissuto un trauma, conosco pompieri che non ci vanno perché si sente in continuazione l’allarme per i caduti, uno dei peggiori suoni al mondo».
Forgive, sounds good. Forget, I’m not sure I could.
Elizabeth ha perdonato anche Khaled Sheikh Mohammed, considerato l’architetto dell’11 settembre. Nel ventesimo anniversario della morte di suo padre, lei non andrà al Memoriale ma a Guantanamo, ad assistere alla fase preprocessuale di quel caso. Il resto della famiglia andrà al picnic di Staten Island, dove c’era la caserma di Douglas Miller. Impossibile dimenticare. Ma puoi scegliere come ricordare.